Noi facciamo solo Metal!....In caserma il 2.0 è stato preso di mira da Frankee il metallaro...fotte un cazzo...leggete se volete...se no andate a farmi un ponte bailey con le mani legate dietro la vostra fottuta schiena.
Delusione, delusione e ancora delusione.
Aspettavo con ansia l’uscita di Post Mortem, secondo album dei Black Tide, e tale ansia era giustificata dal fatto di essere stato colpito molto piacevolmente dal loro disco d’esordio, quel Light from above datato 2008 che, pur non spiccando per particolare originalità, poteva fregiarsi di pezzi-bomba come Shockwave, Warriors of time e la stessa title-track, presentando al pubblico questa giovanissima band di teen-ager (al tempo della release il frontman Gabriel Garcia aveva solo 15 anni) che sembrava candidarsi a pieno diritto al ruolo di imberbe mina vagante della scena heavy metal mondiale.
Ebbene, viste le premesse e le basi gettate dal primo lavoro, e vista la trepidante attesa con cui attendevo l’uscita di Post Mortem, è stato con immenso dolore che, già dopo il primo ascolto dell’ultima fatica dei Black Tide, ho dovuto ammettere a me stesso che c’era un’unica parola che potesse descrivere al meglio le mie impressioni di quel momento (impressioni che peraltro non sono cambiate nemmeno a distanza di mesi): qual è questa parola? Delusione, ovviamente.
Mi spiego. Come detto in precedenza, avere avuto per le mani un disco come Light from above, composto da quattro ragazzini fra i 15 e i 17 anni, capelloni e vogliosi di dispensare dosi massicce di sano headbanging, mi aveva provocato un piacevole fremito lungo la schiena, regalandomi la vana speranza che anche gli anni Duemila avrebbero potuto partorire in mezzo a tanto schifo nuovi gruppi in grado di dare linfa vitale a un panorama in stato semi-comatoso come quello dell’heavy metal, che ormai da anni riesce a smuovere le folle e a far parlare di sé solo se mette in campo i soliti grandi nomi storici (andatevi a leggere gli headliner dell’ultimo Gods of Metal giusto per farvi un’idea).
La beffa però mi aspettava purtroppo dietro l’angolo, e in effetti devo dire che fin dalle prime anticipazioni i sintomi che qualcosa puzzasse c’erano già tutti.
L’uscita di Post Mortem , prevista inizialmente per febbraio 2011, è stata infatti posticipata di circa sei mesi rispetto alle dichiarazioni iniziali e per riempire l’attesa causata da tale rinvio la band si è trovata a pubblicare ben 4 singoli prima dell’effettiva uscita dell’album (Bury me, Honest eyes, Walking dead man e That fire). Tutti e quattro i pezzi lasciavano presagire una decisa virata da parte dei Black Tide verso le sonorità tipiche del metalcore americano, molto diverse dall’hard n’ heavy affilato e di stampo ‘80s che tanto mi era piaciuto in Light from above.
Ebbene, l’ascolto di questi singoli aveva già fatto scattare in me qualche campanello d’allarme, ma in quel momento devo ammetterne di averne sottovalutato la gravità, preoccupandomi ben poco e illudendomi del fatto che probabilmente erano stati stati scelti per l’operazione di lancio i pezzi più paraculo e orecchiabili e che per un giudizio definitivo sarebbe stato doveroso attendere l’ascolto dell’intero album. Un pensiero legittimo direte voi. Peccato che una volta ascoltato l’intero album quei piccoli campanelli d’allarme che suonavano nelle mie orecchie da qualche mese sono diventati delle fottutissime sirene antiaeree.
Inutile girarci intorno, Post Mortem ha trasformato quelli che sembravano essere i nuovi bambini terribili dell’heavy metal in una pop-metalcore band innocua, fiacca e scontata.
Ok, non proprio tutto è da buttare: tutte le canzoni sono in generale orecchiabili di facile impatto (forse anche troppo) e sicuramente ben suonate, Gabe Garcia ha messo su una gran bella voce, potente e versatile quanto basta per i canoni di questo genere, e l’album nel complesso scorre liscio dall’inizio alla fine. Ma è proprio nel momento in cui il cd smette di girare e gli auricolari scivolano dalle orecchie che sorge il problema fondamentale di Post Mortem, che lascia infatti poco o niente a chi lo ascolta. Carino, piacevole e ruffiano, ma alla lunga piuttosto piatto e sicuramente privo della qualità che dovrebbe fare di un buon album qualcosa in più di semplice musica da sottofondo. E se un disco non ti fa mai venir voglia almeno una volta di fermarti qualsiasi cosa tu stia facendo per concentrare tutta l’attenzione sulla musica che ti stai sparando nelle orecchie, allora quel disco non è proprio niente di che. Purtroppo Post Mortem rientra a pieno titolo in questa categoria e fondamentalmente è questa la sua grande croce.
A dirla tutta un paio di lance andrebbero spezzate in favore dei quattro ragazzi di Miami. Innanzitutto proprio il fatto che ci troviamo di fronte a una band così giovane dovrebbe forse rendere più indulgenti nei confronti di qualche passo falso, anche solo per questioni anagrafiche e per il fatto che il loro percorso musicale non è che agli inizi, lasciando aperte prospettive incredibili di miglioramento. Il secondo punto a cui appellarsi è che i Black Tide sono sotto major (Interscope) fin dai loro esordi, e non è peregrino ritenere che la loro casa discografica abbia operato su di loro pressioni più o meno asfissianti per indirizzare le loro inesperte e sprovvedute galline dalle uova d’oro verso una direzione musicale più redditizia economicamente e mediaticamente. Tant’è che da questo punto di vista Post Mortem pare proprio il classico prodotto studiato a tavolino per la heavy rotation di MTV e per far breccia nei cuori dei più giovani e timidi fan di band (inspiegabilmente) sulla cresta dell’onda come My Chemical Romance e Avenged Sevenfold.
Come detto, l’album non può sicuramente essere liquidato come “brutto”, ma allo stesso tempo duole vedere come di pezzi da novanta non ci sia nemmeno l’ombra, nessuna canzone che faccia sobbalzare sulla sedia e faccia venire voglia di fare un po’ di casino come in realtà sarebbe stato lecito aspettarsi. Paradossalmente le due canzoni che ho preferito e che continuano a rimanere nel mio ipod sono le due bonus track riservate all’edizione UK, Alone e Give hope.
Insomma, per chi pensa che l’hard n’heavy sia nato una decina d’anni fa con Bullet for My Valentine e Avenged Sevenfold siamo di fronte a un album quasi imprescindibile (con tutti i contro che una convinzione del genere implicherebbe), per chi invece aveva apprezzato Light from above sperando nella nascita di una nuova band coi controcazzi, o semplicemente per chi avesse voglia di una dose di buona musica e adrenalina il consiglio spassionato è quello di lasciar tranquillamente perdere e passare oltre senza rimpianti. E piange davvero il cuore dirlo, viste le ottime premesse che i Black Tide avevano gettato non più tardi di qualche anno fa.
Un’ultima nota a margine: nel momento in cui scrivo queste righe i Black Tide sono appena usciti con un nuovo Ep contenente tre pezzi, dal titolo Just another drug. L’ho ascoltato, come sempre irrimediabilmente colmo di illusione e speranza. Il risultato? I Black Tide del 2012 sembrano i Nickelback e io mi preparo a ridefinire il mio concetto personale di delusione. Sob.