Il soldatino Frankee ci avere questa recensione sul nuovo dei Ministri. Noi ci scusiamo per il ritardo, ma con sta storia della Russia non si capisce a chi dobbiamo sparare e siamo un pò per aria.
Storia vera di qualche tempo fa. Apro Facebook il giorno del lancio del nuovo singolo dei Ministri “Balla quello che c’è” e mi cade l’occhio sul commento di una ragazza che fa più o meno così: “Leggo sul cellulare che è uscito il vostro nuovo singolo, esco dalla classe e corro in bagno per ascoltarlo tutto d’un fiato, la sigaretta in bocca e una lacrima che mi solca il visto. Grazie per questi attimi che mi regalate in un periodo di maturità ansiogena”.
Potrebbe essere l’inizio di un film di Muccino, e invece è tutto vero.
Ed è lì (senza offesa per la ragazza in questione, io a 18 anni scrivevo di molto peggio) che ho cominciato seriamente a preoccuparmi per l’imminente uscita di Cultura Generale.
I Ministri sono nati come gruppo da battaglia sullo sfondo di centri sociali milanesi, sono cresciuti e “diventati famosi” sgrezzando il proprio sound e disimpegnando i testi in maniera forse un po’ paracula, ma pur sempre efficace e incisiva.
Ora il trio più giaccoso d’Italia rischia di diventare una band ad usufrutto esclusivo di ragazzine maturande e ometti col risvoltino alle caviglie? Sarà forse questo il prezzo da pagare per il successo?
Scherzi a parte, fare i conti con uno stuolo di fan sempre più variegato e eterogeneo - che fa storicamente storcere il naso ai vecchi irriducibili - è l’ovvia conseguenza per ogni band che cominci a farsi un nome a livello nazionale, e a questo step i Ministri ci sono arrivati meritatamente dopo un decennio di tour massacranti, ettolitri di sudore e gran bei dischi.
Questa nuova evoluzione però mi perplime, mi duole ammetterlo. Il problema di “Cultura generale”, al di là delle battute sui commenti di Facebook, delle svolte musicali, delle componenti ideologiche e del fatto che a 32 anni può capitare di non comporre più con l’incazzatura di quando ne avevi 24-25, è semplice: è un album poco incisivo, piatto e, diciamolo pure, insipido.
Ok, in cima alle mia preferenze c’è e ci sarà sempre “I soldi sono finiti“, ma non sono uno di quelli che vive sui ricordi malinconici del primo album. E infatti ho amato anche “Fuori” per il suo essere pop, patinato, smussato e forse lontano da quello che i Ministri sarebbero voluti diventare da grandi (da cui la rottura con la Universal, come candidamente ammesso da Dragona). Ho amato “Per un passato migliore“, che da un lato segnava il ritorno a sonorità più dure per essendo un disco per tanti versi più “fighetto” del suo predecessore.
Ma questo di questo ultimo lavoro fatico davvero a trovare la scintilla: perché non c’è una canzone che ti venga davvero voglia di riascoltare, perché “Le porte“ sembra un pezzo dei Dear Jack con un assolo alla Ligabue, perché “Io sono fatto di neve” (no, la cocaina non c’entra) è un mezzo plagio di “La notte” di Arisa (e non è un bel segno), perché certe supercazzole dei testi di Dragona a un certo punto sfiniscono pure me.
Ma sopratutto perché se in un album che alterna pezzi pestati vecchio stile a ballate pop-rock alla Avril Lavigne, sono le seconde a risultare alla fin fine più piacevoli, non stiamo evidentemente andando nella direzione giusta.
Peggio che fare un album brutto c’è solo farne uno né carne né pesce. Ecco, qui ci andiamo abbastanza vicini.
Rimandati a settembre, in attesa che i prossimi ascolti mi facciano (forse) cambiare idea.