Rob Mules Records - 2018 |
Avevo scoperto i norvegesi Razorbats
poco più di due anni fa con l’album di debutto “Camp Rock”, che mi aveva
fulminato al primo ascolto: il disco mischiava glam, punk, powerpop e hard rock
con una maestria vicina a quella dei loro conterranei Turbonegro nei tempi
d’oro (non a caso era uscito per la Self Destructo Records, in quota Turbojugend).
Dopo un’altra valida prova nel 2016 con l’EP “This High”, la band aveva perso
cantante e bassista, vittime delle fatiche della vita on the road e del campare
di musica. Il chitarrista Kjetil e il suo socio dietro le pelli erano lì lì per
mollare ma fortunatamente alla fine hanno deciso di non gettare la spugna.
Reclutati i rimpiazzi e aggiunta anche una seconda chitarra si sono rimessi al
lavoro e domani sfornano il secondo LP, intitolato appunto “II”.
Il secondo lavoro prosegue in
buona sostanza quanto fatto in precedenza, riprendendone influenze e stile: un
solido mix di spessi riff di chitarra, ritmica diretta ma mai invasiva e
melodie ben dosate per canzoni accattivanti. A segnare il principale cambiamento
nel sound è la voce del nuovo cantante, più classicamente rock rispetto al
rauco punk del suo predecessore. La musica di adatta di conseguenza, rallentando
il passo a favore di maggiore pulizia e precisione, anche a costo di una scarna
essenzialità. L’album è quindi meno immediato
del suo predecessore, travolge meno al primo ascolto, si fa invece apprezzare di
più man mano che lo si riascolta. Si tratta comunque di un ottimo lavoro che
condivide, questo sì, con l’opera prima una notevole compattezza, figlia di un
sound omogeneo ma mai noioso.
Pervaso da una leggera
malinconia, nostalgica ma non priva di speranza, “II” passa dalla leggerezza
glam dell’opener The Waiting ai
territori più duri del singolo Social
Rejects e alle atmosfere struggenti di Sister
Siberia, altro estratto dal disco dove la voce dà un bella prova di sé. Ma
si fanno apprezzare per un verso o per l’altro tutte le tracce: dalla sinistra Dead Boy City a Nowhere, il momento più punk dell’album, passando per il riff
infettivo di Going Underground e la
rabbia adolescenziale di Send In The
Clowns. La mia preferita è però Bad
Teacher, che offre il miglior equilibrio di tutti gli elementi e fa sentire
qual è la cifra di questa seconda vita della band. “II” si chiude con la ballata
Talk All Night, intrisa di quella
malinconia da strade desolate.
Un disco perfetto per perdersi
nei ricordi a notte tarda, tra whisky e sigarette, guardando il cielo.
Nessun commento:
Posta un commento
Il soldato SNAFU odia i Troll quindi, se devi trollare, fallo con stile e non farti scoprire!